La capiente chiesa di San Francesco d’Assisi contiene a fatica le persone che vogliono dire: “ci siamo”. Raramente questo luogo di culto, che è qui da oltre settecento anni, si è riempito così, forse mai per un funerale. È lui, Robertone, a riuscirci. Ed è il suo ultimo contributo per unire una città che nei secoli si è divisa in bianchi e neri, in Guelfi e Ghibellini. L’ennesimo “miracolo” di un uomo capace di far sentire l’altro un vincente. Lui che nella vita aveva vinto tanto, ma anche tanto perso. Uno che esagerava in tutto, ma che al tempo stesso era portatore di equiibrio. Maltinti era uno di noi nelle debolezze e uno che ognuno vorrebbe essere nel successo, non solo sportivo, ma anche morale. Sono questi i motivi per i quali anche il solo sentirsi un po’ suo amico, ti rendeva un privilegiato. E saranno stati mille i privilegiati che hanno partecipato al funerale e tutti avevano la sensazione che Roberto anche stavolta fosse in mezzo a loro, magari nascosto in qualche angolo per quanto la sua mole potesse consentire di nascondersi. Un funerale in cui le lacrime, altro evento raro, non si versavano solo nelle prime file, ma raggiungevano perfino l’adiacente piazzale, con i bus di linea costretti a farsi largo tra la folla. Nulla di banale, come mai banale fu Robertone Maltinti. Perfino l’officiante, don Baronti, maestro nell’eloquio non si sentiva a suo agio davanti al grave lutto che lui stesso provava e alla imponenza dell’uditorio. Si scusa, davanti al minuto foglietto che si accinge a leggere, contenente le poche e sofferte parole che era riuscito a scrivere in quelle 24 ore che in genere separano l’annuncio di una morte dalla celebrazione di una vita. Dopo la messa funebre e i brani del Vangelo che ricordano il naturale passaggio tra questo e l’altro mondo e invitano alla spesso inutile riflessione, sono in tanti a voler leggere una testimonianza, ma qui non si esagera, perchè ognuno dei mille presenti, vorrebbe avere il privilegio di dire qualcosa. E dunque tocca all’amica della figlia, prestarsi con un sorriso dolcissimo, a ricordare come il gigante Roberto, da piccola, la prendesse tra le grandi bracccia, dentro le quali scompariva. I capitani del basket, che trovano chi legge per loro. Chi racconta i loro sentimenti di una vita da sportivi a fianco di Robertone, perchè le parole non sarebbero potute uscire dalle loro bocche per l’emozione. E ancora il tifoso che ricorda come Maltinti sia stato il primo a voler essere con lui il giorno in cui, il tifoso medesimo, perdeva la mamma, avendo la premura di chiedere se “non dava noia”! “Forse non sono nessuno per tanti – aggiunge con immutato stupore – ma non per lui”. Ecco la grandezza di Maltinti: dare un primato a tanti. Ed ecco dunque il presidente della squadra di basket di oggi, salire sul pulpito per affermare con pudore l’inarrivabile umanità di Roberto, tanto grande da raggiungere anche i cuori in apparenza inesplorabili, come ad esempio quelli dei giocatori americani. Fino al toccante intervento di un giornalista, che si erge a portavoce della categoria, con un gruppo di colleghi alle sue spalle, che si incaricano di rappresentare tutti. Il giornalista lancia l’idea, quasi una provocazione: l’utopistica proposta di chiamare un giorno PalaMaltinti l’oggi fatiscente Auditorium, adiacente al Cofax, “dove tutto è nato”. L’applauso della folla parte spontaneo e fortissimo. In ogni caso, ad aprire l’amplissima gamma di interverventi ci ha però pensato Andrea Bonechi, il presidente della Holding Arancione, amico fraterno di Roberto Maltinti. Pochi come Bonechi hanno diviso con Maltinti le gioie e le sofferenze. Bonechi è l’ideale congiunzione tra la Pistoiese di oggi e quella che fu di Maltinti, vale a dire due Pistoiese diverse, entrambe accomunate dal destino di ripartire dopo umilianti radiazioni. Bonechi è noto anche per la vivace e tagliente parlantina, le dotte analisi, la facilità nell’esposizione. Sempre. Anzi quasi sempre. Stavolta il suo incedere è incerto. Il sentimento va oltre la freddezza, che con professionalità e un pizzico di incoscenza cerca di mantenere. Anche lui è costretto a leggere. È l’emozione, stavolta a diventare tagliente, come fosse una lama pronta ad affettare le frasi. Eppure nella sofferenza, che traspare con evidenza, le parole sono uscite chiare e toccanti, fino al lungo applauso finale di approvazione di tutti i presenti. Quando Bonechi si allontana dall’altare appare distrutto, ma in cuor suo felice di aver regalato qualcosa all’amico, prima ancora che alla persona che tutti stavano celebrando.
Ecco il testo della lettera di Andrea. La pacca sulle spalle di Roberto all’amico Andrea, all’amico di tanti tra i presenti, alla fine arriva davvero.
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