E’ un argomento spinoso, personalmente ho deciso di parlarne solo a freddo.
Chi scrive era presente nella tribuna stampa sabato pomeriggio per l’anticipo tra Fiorentina e Lazio. Non è una novità, è strano però non parlare di calcio stavolta.
La partita era importante non solo per i tifosi ma anche per la stampa. Posti pressoché esauriti negli scranni riservati ai giornalisti con una bella rappresentanza a seguito della squadra biancoceleste. I novanta minuti sono intensi, la tribuna che ci ospita vive appassionatamente le fasi di gioco come tutti i professionisti che svolgono con passione il proprio lavoro. Qui però scatta una differenza. Importante.
Sicuramente ogni giornalista tifa per una squadra – magari proprio per quella che segue allo stadio – e sicuramente trasporta le proprie emozioni nel proprio lavoro. Tutto legittimo, anzi di più: la passione è un fattore fondamentale specie per chi racconta in diretta quello che sta accadendo. La gioia al 2-0 della Lazio è coinvolgente tra i giornalisti ospiti, tra l’altro tra i più appassionati e caldi – come i cugini giallorossi – nel modo di vivere il rapporto con la propria piazza. Belli per chi ama il calcio.
Firenze però è dal canto suo calda. La tribuna stampa dello Stadio Franchi, per chi non lo sapesse, si trova all’interno della tribuna senza alcun divisione tra giornalisti e tifosi paganti; con la ristrutturazione “all’inglese” è diventato pressoché abituale un dialogo quasi a botta e risposta tra i giornalisti e chi è loro vicino nei posti assegnati. Solitamente un rapporto anche divertente, sfottò simpatici (e non) fanno parte del gioco. Quello che non fa parte del gioco è quando questa dialettica travalica il ruolo della professionalità: ci sono molto cose da dire sul giornalismo, sulla sua stessa dimensione, ma chi segue con un accredito – per una testata, qualunque essia sia – un incontro di calcio ha una posizione diversa da chi tifa. Anche se tifa. Soprattutto se tifa.
Sono due mondi diversi, quando questa barriera cade il tutto diventa imbarazzante. Per i giornalisti.
I tifosi sono tifosi, pagano il loro biglietto e, se sbagliano, vengono puniti. Gli steward fanno bene il loro lavoro, i contatti – anche senza barriere – sono pressoché impossibili ma le parole e i gesti fanno male. Ecco, a 48 ore di distanza, forse è il momento di dire quello che ho provato. Sì, perché il sottoscritto si è trovato letteralmente “nel mezzo” a quel racconto che è apparso in diverse cronache: con il mio account privato su Twitter ho messo anche piccoli spezzoni in cui si intravede quel che sarebbe stato meglio non vedere e sentire. Non perché ci sia stata violenza o chissà quale altro reato ma perché alcuni protagonisti della stampa hanno travalicato, cedendo alla tentazione di fare i tifosi in mezzo ad altri tifosi. Questo non va bene, qualunque sia il motivo, per un giornalista. Ci sono altri modi per seguire la partita in quel modo, sicuramente senza accredito. E, piccola nota in conclusione, non serve a molto – come ho letto in qualche resoconto – togliere dalla cronaca di quei momenti concitati i professionisti della stampa: quello che è successo è semplice e si può raccontare in due parole per chi ancora è curioso di capire di cosa si stia parlando.
Ritorniamo a dove mi ero interrotto: 2-0 Lazio, gioia tra coloro che seguono i colori biancocelesti e offese verbali dai tifosi vicini. Poi uno/due/pochi dei giornalisti rispondono: chi a gesti, chi con altrettante brutte parole. L’atmosfera si riscalda, arrivano altri due gol in poco più di centoventi secondi (che personalmente non sono riuscito a vedere per via della gazzarra..) e il clima rimane elettrizzante: gli steward cercano di mediare, un collega con grande esperienza esprime – senza particolare successo – il suo disappunto ai protagonisti in negativo mentre la gara si conclude. Le polemiche non finiscono invece, il finale – per chi era presente in tribuna stampa – resta amaro. Non per i risultati sportivi, ma per quelli deontologici. Assenti.